La Principessa che amava i film horror

Il libro
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"La Principessa che amava i film horror" di Alessio De Santa, Daniele Mocci e Elena Grigoli - Tunué, 2014.

Otto storie che parlano di principesse. Dei loro sogni, dei loro obiettivi, dei loro amori, delle loro delusioni, dei loro errori, delle loro valutazioni giuste o sbagliate.

Di come si vedono allo specchio: belle o brutte, simpatiche o antipatiche, sicure di sè o indecise. Di come si pongono, con chi hanno a che fare. Sia la regina oppure la strega, un drago o uno spasimante, un avversario o un maestro. Di come, per mille ragioni diverse, tutte debbano allontanarsi dal castello e trovare il coraggio di affrontare il mondo! Età di lettura: da 10 anni. .

 


 PROFILO DELL'AUTORE


Daniele Mocci

sceneggiatore, scrittore e copywrtiter

  • Sono nato nel 1970 a San Gavino Monreale (CA). Leggo, colleziono e scrivo fumetti da quando avevo sette anni. Sono laureato in Scienze Politiche e ho conseguito un master in Creative Content Writing presso l’Istituto Superiore di Comunicazione di Milano, branca dell’Istituto Europeo di Design.
  • Nel 1997 sono stato uno dei soci fondatori di Chine Vaganti, associazione culturale nata con l’obiettivo di studiare e promuovere il fumetto.
  • Dal 1998 insegno linguaggi creativi nelle scuole (sceneggiatura, narrativa, scrittura per il web, comunicazione pubblicitaria, animazione teatrale e perfino “scrittura astratta”).
  • Tra il 2001 e il 2004 ho pubblicato una grande quantità di strisce a fumetti su testi scolastici e agende universitarie (Esselibri, Napoli).
  • Dal 2002 la serie a fumetti Super Pro, creata da me e dal disegnatore guspinese Luca Usai è pubblicata sulla rivista 44 Gatti (Gaghi Editrice, Milano) e oggi è giunta al 92° episodio grazie anche all’apporto di altri autori come Francesco Abrignani, Elena Grigoli, Marcello Lasio, Andrea Pau, Maurizio Nonnis e Jean Claudio Vinci.
  • Tra il 2003 e il 2006 ho scritto e diretto alcuni spettacoli teatrali, tra cui La Figlia dell’Alcade, nato da un laboratorio didattico alla Scuola Media G. Pala di Bosa (NU) e poi messo in scena anche con la Pseudo Compagnia Teatrale Burrumballà, creata da me e da alcuni amici a San Gavino Monreale all’interno dell’Associazione Culturale Chine Vaganti.
  • Nel 2005 mi sono trasferito a Milano, dove ho lavorato come copywriter per alcune agenzie pubblicitarie (tra cui Colnaghi & Figini s.r.l.) e come sceneggiatore di fumetti.
  • Nel 2006 ho scritto e diretto uno spettacolo teatrale "con delitto", messo in scena a bordo di una nave da crociera sul Nilo con Gianluca Medas come protagonista. Sempre nel 2006 ho collaborato come sceneggiatore con il mensile a fumetti Prezzemolo (Gaghi Editrice, Milano), legato al parco divertimenti Gardaland.
  • Dal 2007 al 2016 la mia serie a fumetti Marcello e Sofia è stata pubblicata sulla rivista Tempodì (Gaghi Editrice, Milano), per un totale di 54 tavole autoconclusive.
  • Nel 2010 sono tornato in Sardegna, dove tutt’ora continuo a svolgere l’attività di sceneggiatore, scrittore, copywriter e insegnante di linguaggi creativi.
  • Tra il 2010 e il 2011 ho pubblicato, in Francia, i due libri a fumetti Carrion (Clair de Lune, Allauch) di cui ho scritto i testi per i disegni di Alessia Buffolo e i colori di Andrea Cagol. I due volumi sono poi stati riuniti e pubblicati in un unico tomo dallo stesso editore francese.
  • Tra il 2011 e il 2013, in qualità di ghost writer, ho collaborato alla stesura di undici titoli della collana I Preistotopi – spin off di Geronimo Stilton (Atlantyca e Piemme, Milano).
  • Nel 2014 ho pubblicato il libro a fumetti La principessa che amava i film horror – e altre storie di principesse (Tunué, Roma) di cui ho scritto i testi per i disegni di Alessio De Santa e i colori di Elena Grigoli.
  • Tra il 2015 e il 2017 mi sono occupato dell’ideazione e dello sviluppo del gioco di ruolo Prima che sia troppo tardi, nell’ambito del progetto comunitario Life Res Maris (Provincia di Cagliari, Area Marina Protetta Capo Carbonara, Università degli Studi di Cagliari, Associazione TECLA).
  • Nel 2016, per conto di Monforte s.r.l. (web agency di Milano), mi sono occupato dell’ideazione e dello sviluppo del gioco online The wheel of time, abbinato al contest nazionale dei videogames Milan Games Week. Il gioco, commissionato da Unieuro, consisteva in una caccia al tesoro inserita all’interno di uno storytelling di genere cyberfantasy.
  • Dal 2016 collaboro come autore ed esperto di scrittura con la Fiera del Libro di Iglesias (Associazione Argonautilus), per la quale svolgo un’intensa attività divulgativa e didattica nelle scuole (primarie e secondarie) e di relazione/presentazione/dibattito nel corso dell’evento.
  • Da qualche anno mi occupo anche di editing e revisione di testi, come nel caso del libro Leggende Rossoblù (2017), scritto dal giornalista Vittorio Sanna per la gioia di tutti i tifosi del Cagliari.
Blog: danielemocci.blogspot.it/ Facebook: Daniele Mocci LinkedIn: Daniele Mocci

 


  INTERVISTA


  • Come nasce “La Principessa che amava i film horror” e perché avete deciso per questo titolo?

Nel 2009, quando ancora abitavo a Milano, ho conosciuto il disegnatore Alessio De Santa. Pochi mesi dopo il nostro primo incontro, Alessio mi ha illustrato la sua idea per un libro a fumetti che avrebbe dovuto parlare di principesse. Qualcosa di non canonico. Qualcosa che stravolgesse le normali direttrici della fiaba. Qualcosa che si posizionasse “di traverso”, tra il fumetto e la narrativa. Lui aveva già dei soggetti brevi, o meglio, delle bozze di soggetto. Per chi non lo sapesse, il soggetto è qualcosa di simile a una trama: un testo sintetico e preciso che illustra l’andamento della storia che si vuole raccontare.
Io lessi quelle bozze e cominciai a lavorarci, cercando di dare loro una struttura più compiuta.
Dopo la prima fase di lavorazione ci ritrovammo con sette soggetti, di cui due ispirati (liberamente) a storie già esistenti. Facemmo un po’ di conti e decidemmo che ci mancava ancora un soggetto.
Lo scrissi io e lo intitolai La principessa capovolta.
A quel punto preparammo un progetto editoriale per il nostro libro. Alessio fece un po’ di disegni per cercare di individuare lo stile che avrebbe potuto adottare (il volume, a quell’epoca, era ancora su una dimensione molto ipotetica). Già dai primi schizzi si intuì la potenza comunicativa di Alessio: una bomba!
Io buttai giù alcune tavole di sceneggiatura tratte da un paio di soggetti. Lui ne disegnò due o tre e le fece colorare a una sua amica colorista.
E intanto arrivò il momento di andare a Lucca Comics, una delle quattro fiere di fumetto più importanti del mondo. A ottobre 2010 portammo il nostro book nella meravigliosa città toscana per sottoporlo all’attenzione di qualche editore. Il titolo era La principessa che amava i film horror (e altre storie di principesse). Alessio lo trasse da una delle otto storie del progetto, anche se io avrei di gran lunga preferito La principessa capovolta, lo stesso che avevo scelto come titolo del mio soggetto, l’ultimo degli otto, quello della storia che avrebbe chiuso il libro. Mi piaceva La principessa capovolta perché parlava di tutto il libro, anche delle altre sette storie scaturite dai “pre soggetti” di Alessio e che io avevo fatto miei e sceneggiato, ammaliato come sempre dalle narrazioni un po’ “storte”, folli e surreali. Un po’ ironiche, umoristiche e sarcastiche. Mi piaceva La principessa capovolta perché io e Alessio stavamo capovolgendo le fiabe, i loro personaggi, i loro luoghi comuni. Prendevamo tutto questo e lo mettevamo in relazione con le dinamiche relazionali e psicologiche della realtà, cioè molto più plausibili rispetto a quelle in cui, di solito, si muovono gli “attori” di una fiaba. Era tutto finto, ma anche tutto vero. Ed era questo capovolgimento che avrei voluto sottolineare. Secondo me funzionava alla grande.
Ma l’idea originaria del progetto era di Alessio e mi sembrava brutto insistere. Per cui lui scelse il titolo di un’altra delle otto storie, presumo quello che gli piaceva di più e che gli suonava meglio in testa, anche in vista di una (molto improbabile, a quell’epoca) pubblicazione.

 

  • In tutto il libro vengono riprodotte delle principesse “capovolte”, ovvero principesse che escono dallo stereotipo della fiaba di genere e si aprono alla modernità. Come è avvenuta questa scelta? Che tipo di lavoro è stato fatto per donare ai vari racconti una protagonista diversa dal solito?

La scelta è avvenuta in modo mirato e consapevole, prima che io e Alessio cominciassimo a sviluppare il libro. A differenza di ciò che accade nelle fiabe tradizionali, in questo lavoro le principesse sono persone reali che agiscono in mezzo a personaggi e situazioni da fiaba. Tale particolarità le porta ad avere “reazioni non canoniche” con gli altri personaggi e con il contesto, ma anche desideri e obiettivi incompatibili con il “galateo” delle strutture narrative di una fiaba. Questo, a mio avviso, è il tratto più originale e innovativo. Il motivo per cui il libro, che in apparenza sembra essere indirizzato ai bambini, in realtà si rivela adatto a tutti: grandi e piccoli, uomini e donne, genitori e figli, persone concrete e sognatori irriducibili.

 

  • “C’era una volta un Re vecchio e triste” che va alla ricerca della figliola scappata con un ballerino nano. Come è arrivata l’idea di un intermezzo narrativo che facesse tanto da collante tra i racconti quanto da storia unica che apre e chiude il progetto?

In occasione di quella “fatidica spedizione” a Lucca Comics 2010,  Massimiliano Clemente delle edizioni Tunué si mostrò subito interessato al nostro progetto. Io e Alessio avevamo previsto solo le otto storie che poi sarebbero state pubblicate nel libro. Ed erano otto storie indipendenti, non collegate tra loro. Massimiliano Clemente ci chiese se potessimo pensare a una sorta di vicenda che in qualche modo le collegasse, per dare al lavoro un senso di maggiore unitarietà. E così io pensai a un “gioco” che aveva come protagonista il re della prima storia, ovvero il padre della principessa che, insoddisfatta delle moltissime proposte di matrimonio ricevute da un’infinità principi “suoi pari”, era scappata via con un giullare che, per quanto brutto e scalcagnato, condivideva con lei la medesima passione per il ballo.
Nella mia idea, questo re, sentendosi responsabile della fuga di sua figlia, decide di lasciare il suo castello per andare a cercarla. E, nelle sue varie peregrinazioni, finisce per incontrare suo malgrado i personaggi (anche quelli secondari) di tutte le altre storie del libro. Un simile escamotage narrativo ci permetteva di unificare tutte le storie del libro senza modificarle, oltre che di dare un finale più forte al volume.
L’idea piacque a Massimiliano Clemente e il libro fu definitivamente accettato dalla casa editrice Tunué.
Per vederlo nelle librerie italiane, con gli splendidi colori di Elena Grigoli, abbiamo dovuto aspettare fino al mese di maggio del 2014. Ma è stata un’attesa ben ripagata dall’ottima accoglienza del pubblico e della critica.

 

  • Le situazioni raccontate hanno in molti casi una impronta comica: come avviene la scelta del registro linguistico da tenere in una storia? A cosa ti sei ispirato e quali sono state le vostre influenze in tutto il progetto?

La cifra umoristica, comica, ironica e/o sarcastica ha sempre fatto parte del mio bagaglio di scrittore e sceneggiatore, per quanto diverse volte mi sia capitato di scrivere storie cupe, drammatiche e, comunque, non pensate per strappare il sorriso o la risata.
Nel caso de La principessa che amava i film horror la natura stessa del progetto richiamava l’utilizzo di situazioni divertenti, grottesche e anche paradossali o surreali. Trovo che sia quasi automatico che, in un lavoro che, come questo, destruttura i canoni classici della fiaba, ci debba essere una componente che faccia scattare il bisogno di sorridere. Da questo punto di vista, con Alessio ci siamo trovati in perfetta sintonia, per quanto poi l’umorismo abbia anche una forte componente di soggettività. Io ho cercato di assecondare il mio gusto personale, in particolare per quanto riguarda la messa in scena di situazioni paradossali e l’utilizzo funzionale e mai fine a se stesso di citazioni letterarie, cinematografiche, pittoriche, musicali e di altra natura. Poi ho ascoltato anche le esigenze di Alessio e la sua particolare visione delle cose, cercando una sintesi con la mia o, se non altro, una pacifica convivenza.
Ma attenzione: questo non è un libro di risate gratuite. In certi casi capita che si rida con l’amaro in bocca; in altri, le risate per il comportamento meschino o inadeguato di un personaggio nascondono uno specchio in cui quel personaggio ha la nostra stessa faccia!

 

  • A quale delle storie sei più legato e perché?

In primo luogo alla storia della principessa capovolta (l’ultima del libro), per i motivi che ho già esposto in precedenza. Poi a quella intitolata Spirito di contraddizione, che parla dell’emancipazione femminile forse più di ogni altra. Ma non riesco a preferirne qualcuna in modo netto rispetto alle altre. Perché in ciascuna c’è una parte di me, del mio carattere o delle mie esperienze personali.

 

  • Di che tratta la parte finale denominata “L’arte di disegnare draghi”? Che funzione possiede nel progetto?

L’idea di un’appendice al libro è nata durante la lavorazione. Sia io che Alessio ne abbiamo proposta una. La mia prevedeva quello che in diversi film (soprattutto di animazione) talvolta viene mostrato in pillole agli spettatori durante lo scorrere dei titoli di coda: alcuni brevissimi testi corredati da poche immagini in cui, per ciascuna delle otto storie, si svelava cosa fosse successo ad alcuni dei personaggi (principali o secondari) in un tempo successivo rispetto alle vicende narrate nel libro.
Quella di Alessio, invece, faceva leva sull’interazione tra noi autori, il libro e i lettori più giovani. E dato che nel libro c’era anche un drago, quale migliore occasione per giocare una volta di più con i lettori offrendo loro una piccola guida che, con un tono a metà strada tra lo pseudo scientifico e il farsesco, insegnasse proprio a disegnare un drago?
Questa idea aveva in sé un elemento ulteriore che avremmo potuto utilizzare nel caso si fosse previsto qualche workshop con i lettori più piccoli in aggiunta alle canoniche presentazioni: un piccolo laboratorio di disegno sui draghi, animali fantastici che nell’immaginario collettivo sono spesso legati alle storie di principesse. Ed è ciò che abbiamo fatto in più di un’occasione.

 

  • Com’è cambiata l’arte del fumetto nel corso degli ultimi decenni? In che modo il fumetto riesce a veicolare un messaggio civile e culturale?

Il fumetto è sempre stato un eccezionale “tavolo di sperimentazione”, utilizzato non solo dagli addetti ai lavori, ma anche da autori dediti a tutt’altro: dal cinema alla narrativa, dalla comunicazione pubblicitaria ad altre forme di espressione. Oggi, rispetto a qualche decennio fa, si è sviluppato tanto il mercato dei romanzi a fumetti, i cosiddetti graphic novel. Ma nonostante questo, il fumetto popolare non è affatto morto anche se, in molti casi, si è ridimensionato soprattutto per ciò che riguarda il numero di copie vendute.
Io non sono d’accordo con l’opinione secondo la quale il fumetto d’autore e i graphic novel siano migliori del fumetto popolare. Sono semplicemente due approcci differenti allo stesso medium.
Nel mio studio o sul mio comodino è facile trovare un libro di Gipi insieme a un albo di Zagor e a un numero di Topolino. Ritengo falsa anche l’immagine che vede il fumetto “impegnato” come l’unico capace di veicolare contenuti “civili e culturali” di spessore. Per quanto mi riguarda, e senza addentrarmi in discorsi troppo specifici, non posso certo dimenticarmi che è grazie a fumetti popolari come Nathan Never, Martin Mystère o Dylan Dog che io ho sviluppato un’autentica passione per la narrativa.
Diciamo che sarebbe consigliabile avvicinarsi ai fumetti ben fatti, siano essi graphic novel concepiti da intellettuali o artisti di grande valore, siano essi opere di intrattenimento scritte e disegnate da professionisti brillanti e preparatissimi.
Non è un caso che io adori le opere ibride. Quelle difficili da collocare sia nel fumetto d’autore che in quello popolare. Per fare solo un esempio citerò Ken Parker, meraviglia senza tempo creata dallo sceneggiatore Giancarlo Berardi e dal disegnatore Ivo Milazzo. Un autentico miracolo in cui la sensibilità e l’attenzione degli autori per le tematiche “alte” e socialmente impegnate si scioglieva all’interno di narrazioni inquadrate rigorosamente in una realtà storica molto documentata, ma sempre capaci di offrire la giusta dose di avventura e intrattenimento. Insomma, in opere come Ken Parker c’è tutto quello di cui io ho bisogno, sia some lettore che come autore: qualcosa che va al di là dei generi e delle etichette. Ma anche dell’eccessiva targetizzazione, un fenomeno che in molti casi ritengo inutile se non dannoso e, in ogni caso, gonfiato artificiosamente da un mercato che mira più a fabbricare prodotti che a raccontare belle storie.

 

  • Da dove prende spunto la tua carriera da disegnatore e sceneggiatore di fumetti? Quali sono state le tue esperienze e cosa devi alla tua sardità?

Parlerei solo della carriera di sceneggiatore, dato che io non disegno! Al massimo mi capita di abbozzare qualche scarabocchio con la matita su un foglio di carta riciclato, quando voglio capire se quello che ho pensato e scritto in sceneggiatura potrà davvero funzionare sulla tavola che il disegnatore illustrerà.
Per tornare alla domanda, la mia carriera di sceneggiatore di fumetti deve tutto al mio amore e alla mia passione per questo meraviglioso mezzo di comunicazione capace di raccontare storie attraverso uno specifico utilizzo delle immagini. La mia prima storia a fumetti in assoluto è datata 1977. Ero in seconda elementare e la cosa nacque per via di un compito che ci diede la maestra, Maria Giovanna Mereu Mura, una donna di vedute molto aperte, considerato che ancora oggi ci sono numerose situazioni in cui la scuola o le famiglie squalificano il fumetto, etichettandolo con una notevole dose di leggerezza e ignoranza come un “genere di serie B”. A uso di queste persone per niente informate, mi limito a dire che il fumetto non è affatto un genere. Generi sono, per citarne solo alcuni, il giallo, l’horror, il western, il fantasy, ecc.
Il fumetto è un mezzo di comunicazione a tutti gli effetti, con i suoi codici, il suo linguaggio e le sue regole. Esattamente come la narrativa, il cinema e il teatro, altri medium che al loro interno annoverano opere non solo di serie A, ma anche di serie B e di serie assai inferiori.
Dopo quel primo fumetto ne ho fatti tanti altri nella mia infanzia e nella mia adolescenza, fino a quando ho smesso di disegnare perché non ero abbastanza bravo e perché mi piaceva di più scrivere.
Ma quando ho capito che potevo fare i fumetti anche senza doverli disegnare, allora ho cominciato a studiarli per davvero fino a che, dopo un corso alla Sardinian School of Comics di Cagliari (1994-95), ho fondato con altri cinque amici l’Associazione Culturale Chine Vaganti (1997), con la quale la mia passione è “diventata adulta” fino a trasformarsi anche in un lavoro. Dopo tanti fumetti autoprodotti con l’associazione, è arrivata l’occasione di esordire con editori veri e propri. Il primo lavoro a fumetti che mi è stato pagato è Super Pro, una serie per bambini creata da me e dal disegnatore guspinese Luca Usai che dal 2002 esce sulla rivista 44Gatti (Gaghi Editrice, Milano) e che oggi è giunta all’episodio numero 92. Tengo molto a sottolineare quanto sia stata importante per me l’esperienza con Luca Usai, il quale oggi lavora per Disney Italia / Panini Comics e pubblica regolarmente le sue storie su Topolino. Con Luca ho fatto una marea di fumetti e di progetti, e ho trovato un partner ideale per crescere professionalmente.
Sempre nei primi anni 2000 ho lavorato per alcuni anni con l’editore Esselibri di Napoli, per il quale ho scritto numerosissime strisce a fumetti pubblicate in diversi testi scolastici a uso degli istituti superiori italiani e su alcune agende universitarie. Da allora le collaborazioni si sono fatte intense. Per non esagerare mi limiterò a segnalare i due libri di Carrion, che ho scritto per i disegni di Alessia Buffolo e i colori di Andrea Cagol e che sono stati pubblicati in Francia tra il 2011 e il 2013, e il libro di cui abbiamo parlato in questa intervista, ossia La principessa che amava i film horror (e altre storie di principesse), pubblicato da Tunué (Latina, Roma).
A questi lavori se ne aggiungono tanti altri non solo in ambito fumettistico, ma anche nella comunicazione pubblicitaria e nella narrativa. Indubbiamente i cinque anni in cui ho vissuto a Milano (2005-2010) mi hanno aiutato moltissimo a sviluppare queste professionalità, anche grazie a una fitta rete di collaborazioni con case editrici e agenzie pubblicitarie.
C’è poi il capitolo “scuola e formazione”: dal 1998 insegno linguaggi creativi nella scuola (primaria e secondaria di I e II grado, istituti professionali e scuole private). A questo proposito dico che mi piacerebbe che i detrattori del fumetto esaminassero con cura i lavori che in tutti questi anni ho contribuito a produrre nella scuola con centinaia di studenti e di docenti, utilizzando i codici del fumetto, della narrativa, della comunicazione pubblicitaria, del teatro, della sceneggiatura per audiovisivi e di altre forme espressive.
Infine, per rispondere alla questione sulla mia sardità, dico che a essa devo la connessione con la terra intesa come ambiente naturale e come territorio con la sua storia, la sua gente e le sue specificità. Mi spiego meglio: penso che la Sardegna sia uno di quei luoghi in cui è ancora possibile avere dei rapporti autentici con gli elementi naturali e con gli esseri umani; una terra che, nonostante certe scelte scellerate o incomprensibili, consente alle persone di sentirsi parte di questo mondo senza provare un sentimento di rigetto. L’importante, però, è non dare mai questa cosa per scontata. Neanche in Sardegna!