La cultura nuragica

Arrogus de storia
Typography
  • Smaller Small Medium Big Bigger
  • Default Helvetica Segoe Georgia Times

Secondo alcuni studiosi, intorno alla metà del secondo millennio (1500) grazie agli interscambi economici con i micenei, i sardi appresero l’arte di chiudere a falsa cupola (tholos) le torri megalitiche.

A parer nostro, le esigenze e le tecniche, sono assai diverse, per non parlare del fatto che si è arrivati attraverso altre strade alla realizzazione della tholos sarda e forse, è stata la tolos nuragica, ad insegnar qualcosa ai micenei. Specialmente perché, in quelle terre, non abbiamo strutture di base che ci conducano verso tale struttura o almeno anche esempi più semplici, che possano aver fatto scuola nel realizzare quell’ampio ambiente voltato, sempre con la tecnica della tholos. Le tombe micenee con ambiente voltato a tholos, hanno una così ampia superficie che, nel loro interno, vi si può realizzare l’intera base del nuraghe.
Nel territorio sangavinese, si iniziò ad edificare il nuraghe, quando ormai ebbe assunto una espressione architettonica già compiuta. Purtroppo, sono giunti a noi, assai distrutti nell’alzato e se qualcuno, sino a non molti anni, emergeva ancora dal suolo, vi hanno pensato i sangavinesi, con le ruspe, a rendere aratori anche quei pochi metri quadri di superficie, che non producevano, spazzando via quanto restava. I pochi resti rimasti, non possiamo per il momento, che vederli nella loro espressione iniziale di monotorre e fors’anche ad una sola camera, anche se, pur nella loro semplice espressione si innalzavano, nella fertile piana, come dei veri e propri castelli o baluardi per la difesa delle ricchezze del villaggio.

Non sappiamo ancora se tale struttura monumentale fosse in funzione del gruppo villaggio o del gruppo dominante o se in realtà il gruppo villaggio sia lo stesso gruppo dominante. Certamente è in questo periodo che emergono i gruppi parentali, le cosi dette stirpi, che andranno poi a costituire i vari popoli. È assai probabile che a questo punto non si possa ancora parlare di proprietà privata. in quanto, il tutto è gestito dal capo clan o villaggio e quanto si produce è per il bene comune, pur iniziando a esservi un gruppo ristretto che gode di maggiormente di quei frutti.
Con l’edificazione del nuraghe, non è improbabile che nell’isola si stesse cercando di porre rimedio, in modo singolo, ad una situazione di forte instabilità interna, dovuta a genti insediate in aree marginali, che con violente azioni di razzia mordi e fuggi, cercavano di acquisire quanto l’annata o il territorio non offriva loro. Non si deve dimenticare che,queste azioni, si sono protratte sino all’attuale diciannovesimo secolo, con il nome di bardane, anche se in realtà, attraverso tali azioni, si coglieva l’occasione di attuare dei crimini su commissione. L’ultima bardana compiuta in Gonnosfanadiga, venne attuata da genti provenienti dall’Ingurtosu, che componevano una banda di circa una cinquantina di persone a cavallo, raccogliticce, unitesi per l’azione criminosa e questo nonostante lo stato fosse presente nel territorio, con delle grosse caserme di Villacidro e di Guspini. Tali azioni di perdurante malessere, costringevano il singolo cittadino a fortificare l’abitazione con feritoie, scale retrattili, passaggi segreti, fori nel pavimento della camera da letto realizzata al piano superiore, come lo era l’abitazione del Don Toneddu, posta tra la via S. Gavino e vico 1° Trento, ora vi sorge la casa Olivo. Non erano rare altre abitazioni con feritoie nella stessa S. Gavino ed in altri centri come Sardara, S. Giovanni Suergiu. Escolca.
È quindi come risposta ad una situazione di malessere interno, che il nuraghe nasce ed assume quella sua espressione compiuta che tutti conosciamo. A dimostrazione di come genti, provenienti da culture diverse, cercarono di inserirsi nella terra dei Beroniacensi e come tale nel territorio di S. Gavino, lo testimoniano le testimonianze archeologiche della cultura sia di Monte Claro e di Bunnannaro che è possibile riscontrare in siti in cui si riscontrava la presenza del Nuraghe. Di rilevante interesse, per lo studioso, possono essere i siti di Scrocca, Nuraci, Porcedda e Ortillonis, Cor’e Mobas e la stessa S. Maria.
Sino agli anni ottanta, erano presenti nel cortile esterno del convento di S. Lucia, dei grossi conci basaltici come anche degli elementi tipici della pensilina di un nuraghe, ora scomparsi, anche se, non ci è dato di sapere se il nuraghe fosse presente nell’area del convento o i conci, vi siano stati trasportati per lavori svolti o da svolgersi.  
A partire dal 1700/1600 a. C. n. in Sardegna si riscontra l’avvio di un fiorente commercio con la genti a cultura egeizzante, con oggetti e pani di rame che tra il 1500/1400 si introdussero anche nei villaggi più addentrati nel territorio. Queste genti, grazie ai loro contatti anche con gli Ittiti, diffusero nel mediterraneo l’uso del ferro e del cavallo, per non parlare del nome con cui identificavano l’isola e i suoi abitanti.
Chi tra i sardi acquisì subito l’uso del ferro, guadagnò un notevole vantaggio su le altre genti. Nei pressi del territorio di S. Gavino però in agro di Sardara abbiamo il Nuraghe Janna, dove alcuni elementi del villaggio lasciano intendere come questo villaggio che si inseriva come una spina nel fianco nel territorio dei beroniacensi, aveva uno strato culturale legato alla nuova fase culturale dell’età del ferro.
Ben presto i beroniacensi capirono l’importanza di questo nuovo metallo, lo fecero proprio e consolidarono il territorio ampliando il territorio sangavinese creando il Nuraghe Ianna nei pressi di un semplice villaggio preesistente lungo le rive invernali dell’area acquitrinosa oggi indicata come stagno di Santu  Miali e Stai. Struttura che verrà distrutta dai certaginesi nel loro tentativo di conquistare l’isola, ma che proprio in S. Gavino verranno fermati e sconfitti.
 Del rituale della morte, non mancavano le tombe a corridoio, dove però i pochi resti pervenutici non permettono una seria lettura, ossia, se si trattava di tomba a corridoio di tipo dolmenico o del periodo nuragico, la cosiddetta “tomba di giganti” (bia Umbu). La forte presenza di acque sorgive di superficie, non dovrebbe farci escludere il rituale del così detto culto delle acque, con la sua espressione tipica del tempio a pozzo, che si ritrova in zone meno ricche di tale prezioso elemento è pertanto assai probabile che tale rituale potesse svolgersi con modalità diverse. Alcuni studiosi sangavinesi tendono a collocare un eventuale tempio a pozzo nell’area dell’attuale convento di S. Lucia.